Il crollo del Rana Plaza in Bangladesh che ha causato l’uccisione di più di 1100 persone lo scorso aprile, ha messo a nudo le condizioni di lavoro precarie a cui i dipendenti delle industrie tessili – molti dei quali sono donne – sono sottoposti nei paesi in via di sviluppo.
Questa tragedia ha anche rivelato la distanza che esiste fra alcune aziende e l’applicazione concreta dei concetti di responsabilità sociale d’impresa (RSI). Poco dopo l’incidente, numerose imprese europee fra cui H&M, Carrefour e Marks&Spencer, hanno firmato un accordo relativo alle misure di sicurezza che devono necessariamente essere adottate in un luogo di lavoro, che devono includere anche ispezioni rigorose ed indipendenti presso gli stabilimenti dei subappaltatori, nonché contribuire alla copertura dei costi per il miglioramento della sicurezza degli edifici.
Sia Walmart che Gap, entrambi nomi notissimi a livello internazionale, non hanno voluto partecipare a questa iniziativa, puntando invece, insieme ad altri retailer e alla principale federazione dei dettaglianti, all’implementazione di un loro piano per promuovere la sicurezza nel settore degli abiti in Bangladesh.
Questa iniziativa, annunciata la scorsa settimana, cercherà di “sviluppare ed implementare un nuovo programma per migliorare le normative antincendio e sulla sicurezza nelle aziende tessili del Bangladesh”, secondo quanto ha dichiarato il Bipartisan Policy Center, il gruppo non profit capofila dell’azione.
Eppure, nonostante la loro resistenza ampiamente criticata alle misure di sicurezza originariamente proposte, Gap è spesso considerata un leader nel settore in fatto di CSR ed entrambe le aziende si sono proclamate all’avanguardia nelle iniziative per la promozione delle donne. Due anni fa, Walmart ha lanciato l’iniziativa Global Women’s Economic Empowerment che, secondo il sito web dell’Iniziativa, ha raddoppiato il denaro devoluto dall’azienda in favore di attività possedute da donne e in favore di formazione ed accesso all’istruzione. Nel 2007, Gap ha istituito P.A.C.E. (Personal Advancement & Career Enhancement), un programma per aiutare le lavoratrici del settore tessile nei paesi in via di sviluppo ad avanzare nella carriera, oltre il livello di ingresso all’assunzione.
Ad alcuni, il rifiuto da parte di queste aziende di prendere parte al piano varato dalle altre può sembrare una mossa contraddittoria ed ipocrita; si potrebbe pensare che gli sforzi di responsabilità sociale intrapresi da un’organizzazione e pubblicizzati in maniera consistente servano solo a deviare l’attenzione da alcuni elementi sconvenienti delle loro strategie di business, come ad esempio l’inquinamento dell’aria, la produzione di merci in stabilimenti malsicuri o lo sfruttamento dei lavoratori retribuiti troppo poco.
Americus Reed, professore di marketing alla Wharton University, sostiene invece che anche le decisioni relative alla responsabilità sociale d’impresa discendano da un calcolo costi/benefici e da decisioni razionali. Non si tratta di un tentativo di manipolare l’opinione degli stakeholder e, per questo, giudicare la performance di CSR di un’azienda da investitore, cliente o futuro dipendente richiede sia scetticismo che comprensione. Le risorse sono scarse e le imprese prendono la maggior parte delle decisioni di CSR in base ad un complesso processo di business. Occorre però chiedersi se gli esiti positivi provenienti dalle scelte aziendali superino quelli negativi, poiché non è realistico aspettarsi la perfezione. Ma è lecito considerare un buon punto di riferimento un’azienda che ha buoni valori e sceglie di impegnarsi in un’ottica di lungo periodo rispetto al perseguimento dei profitti a breve termine.
Impatto sociale o pubbliche relazioni?
Perché le imprese investono in CSR? Ci sono diverse ragioni: per gestire i propri rischi, per attrarre nuovi dipendenti, per mettere in luce il loro marchio agli occhi di investitori e consumatori, per migliorare la gestione e la trasparenza delle supply chain, per risparmiare denaro, per aumentare l’accesso ai capitali, per differenziarsi dalla concorrenza e – a volte – perché è semplicemente la cosa giusta da fare.
Un sondaggio della Wharton University ha chiesto ai dirigenti di diverse aziende di spiegare perché queste si imbarcassero in iniziative di CSR dalla prospettiva della strategia aziendale. L80% del campione ha risposto che, così facendo, esse sperano di migliorare la propria reputazione; il secondo motivo più citato a giustificazione degli investimenti in CSR è che questa ha un impatto diretto sull’immagine del marchio per i prodotti e i servizi aziendali; inoltre la CSR è una questione di buona corporate citizenship. Da ultimo, i manager hanno sostenuto che gli investimenti in responsabilità sociale aiutano ad attrarre e a trattenere i dipendenti migliori e influenzano le vendite e i profitti derivanti dai prodotti o servizi offerti.
Nonostante si possa pensare che le aziende assumano addetti alle pubbliche relazioni il cui compito è manipolare le cose, rendendo la responsabilità sociale una scelta superficiale e cosmetica, la maggior parte degli sforzi compiuti in questo senso va oggi oltre le pubbliche relazioni e per molti aspetti si configura come una misura di gestione del rischio. Non genererà introiti nel breve periodo, ma nel lungo periodo certamente sì.
Al giorno d’oggi, praticamente tutte le aziende di Fortune 1000 dedicano una parte del sito a qualche forma di rendicontazione sulla CSR, mettendo tipicamente in luce decisioni prese in base a ciò che i suoi stakeholder considerano “più importante”, provenienti da una disamina dei rischi e delle opportunità relative alla responsabilità sociale – come la salute e la sicurezza in fabbrica o gli impatti ambientali – e da una stima per importanza delle questioni che stanno più a cuore agli stakeholder. L’obiettivo per molte imprese è generare parametri credibili con cui agire e costruire un tracciato di lungo periodo relativo agli impatti sociali che le isoli da eventi potenzialmente idiosincratici e ad alta visibilità (come il crollo di Rana Plaza) dal momento che, anche se i consumatori leggono di rado i report di CSR, fanno molta attenzione a ciò che i media trasmettono.
Punti critici
Dopo una tragedia come il collasso di Rana Plaza, le imprese si trovano di fronte ad una decisione difficile. Far parte di una coalizione che migliori le condizioni di lavoro in Bangladesh, o spostare la produzione in Indonesia dove le condizioni potrebbero essere migliori? Il modo in cui gestiranno questioni critiche come questa metterà in luce anche la loro amministrazione delle questioni di responsabilità sociale.
Anche se i manager sono armati di buone intenzioni, esistono problematicità implicite anche nell’esecuzione di una strategia di CSR; per esempio, se un’azienda opera in un paese che non supporta i diritti dei lavoratori, come la Cina, sarà difficile mettere in atto i cambiamenti in un simile contesto. Nonostante oggi le aziende abbiano una comprensione migliore della suppy chain, c’è ancora poca chiarezza quando entrano in gioco gli appaltatori e i subappaltatori.
Inoltre, i leader delegano le iniziative di CSR ad unità di business che hanno la responsabilità di generare profitti pur tagliando i costi, e anche questo rappresenta un punto critico per la responsabilità sociale d’impresa, dal momento che, principalmente, le imprese scelgono le questioni di CSR a cui dedicare tempo e denaro anche in base ai loro interessi economici.
Ai consumatori importa?
Una ricerca recente ha messo in luce una crescente richiesta di informazioni su come e dove vengono prodotte le merci da parte dei consumatori. Per quanto riguarda i capi di abbigliamento in possesso di una certificazione che attestava il rispetto di standard sul lavoro e la sicurezza durante la produzione, i consumatori che cercano l’offerta più vantaggiosa sono meno propensi ad acquistare qualcosa di più costoso, nonostante sia fairtrade. Invece, altri studi mostrano che le etichette fairtrade hanno un impatto largamente positivo sulle vendite. Un importante segmento di acquirenti sono disposti a pagare fino all’8% in più per un prodotto certificato fairtrade. Esiste un segmento di consumatori che, a causa della loro sensibilità, della loro cultura, del loro contesto sociale, sono disposti a pagare un prezzo più alto per un prodotto certificato. Ma non è questo a generare profitti per le aziende, perché la maggior parte dei consumatori non pagherebbe un sovrapprezzo per un prodotto sostenibile.
I dipendenti invece sono un argomento diverso, perché i programmi di CSR offrono un vantaggio competitivo per quanto concerne il reclutamento di forza lavoro. Secondo una ricerca condotta l’anno scorso da Nielsen, il 62% degli intervistati ha dichiarato di preferire aziende che si impegnano attivamente nel sociale. I dipendenti migliori non svolgono solo un lavoro: credono di fare qualcosa che rifletta chi sono; lavorano di più e rimangono in azienda più a lungo. E le aziende vogliono attrarre persone il cui sistema valoriale sia concorde al loro.
Fonte: una nostra libera traduzione di un articolo della Wharton School of the University of Pennsylvania.